Che non sia vuota devozione

La chiesa era gremita all’inverosimile, non c’era nemmeno un posto libero per potersi sedere, e perfino stando in piedi si riusciva a malapena ad evitare di strofinarsi l’uno con l’altro.
Sembrava la notte di Natale e devo dire che notavo con stupore la presenza massiccia di fedeli, anche se poi ho scoperto che fra i molti c’erano amici e parenti di un ragazzo morto a soli 28 anni che erano venuti per commemorarlo.
Mi chiedevo se alla fine – nel mezzo di una crisi economica che si aggiunge a quella morale ed etica che da alcuni decenni perversa incontrastata lungo tutto il territorio della nostra cara penisola – la chiesa non sia rimasta l’unica struttura capace di veicolare un messaggio (quello religioso) che abbia la capacità di rassicurarci, di proteggerci e rasserenarci. Magari la critichiamo, mettiamo in dubbio i suoi dogmi o la sua incapacità di adeguarsi ai tempi ed entrare ancor di più in contato con la gente e il territorio, ma alla fine rimane sempre li, con fare materno e paternalistico, ad accogliere i delusi della politica, dei governi, dello stato, della new economy e del credito facile e indolore.  Delusi dagli amministratori e dalle loro promesse, dagli imbonitori, dai venditori di fumo, dai divi della tv, dalle false speranze e dai sogni irrealizzabili, dalle false aspettative e, perché no, dai genitori, dai figli, dai mariti e dalle mogli. In mezzo a questo coacervo di speranze deluse non rimane che attaccarsi ad una delle istituzioni tradizionali più rassicuranti.

Credo che fondamentalmente i fedeli vogliono essere rassicurati, si aspettano una parola di conforto e di coraggio e desiderano ardentemente credere che se ancorati alla vera “roccia” (Gesù), il loro rapporto di coppia e la famiglia stessa saranno in grado di affrontare qualsiasi tempesta. Le cose non stanno proprio così ma è anche vero che psicologicamente aiuta molto.
Lo stare insieme agli altri, condividerne la fede anche se in fondo molto spesso si tratta di fede vacillante, è un modo per esorcizzare le paure e nascondersi dal nemico che sta fuori.
In questo nascondersi, in questo sfuggire il nemico, nel tirarsi indietro con fare timoroso, nel non voler duellare con esso, trovo un punto di debolezza che porta alla chiusura, alla costruzione di piccoli recinti, una sorta di spiritualismo intimistico che ci protegge ma non ci fa crescere e ci isola dalla società civile.
La partecipazione alla Santa Messa, il gruppo di preghiera, l’impegno ecclesiale, il servizio catechistico devono essere supportati da una esperienza più larga di condivisione, dal confronto con altre idee, con altre religioni o altri stili di vita, affinché il laico si senta cittadino del mondo e non semplice devoto.
Già, cittadini del mondo! Vorrei ricordare ad alcuni devoti che il mondo inizia appena mettiamo piede fuori dalla chiesa, dai marciapiedi che calpestiamo, dalle strade che dobbiamo percorre e da quelle strisce pedonali sulle quali – per distrazione o per incuria nei confronti del codice stradale o (peggio ancora) nei confronti di quei cittadini che vorrebbero attraversarle – abbiamo posizionato la nostra macchina. A questo punto mi chiedo: la chiesa è in grado di formare coscienze civili? Persone che partecipano e si interessano alle questioni che riguardano la vita del proprio paese? E’ in grado di indirizzare i fedeli verso atteggiamenti virtuosi riconducibili a semplici gesti di carattere etico? Per quale arcano destino il messaggio cristiano, più delle volte, non riesce a creare quel moto della coscienza in grado di farci indignare di fronte al malcostume dilagante, agli atti di inciviltà perpetrati davanti ai nostri occhi e che accettiamo passivamente?
Credo che dentro il Vangelo, ad una lettura non solo letterale del testo, c’è abbastanza terreno fertile in grado di far germogliare i migliori sentimenti. Il problema comincia quando dobbiamo tradurre questi buoni sentimenti in azioni. Con i soli sentimenti saremo in grado di giurare l’amore eterno, ma non saremo in grado di preservarlo, saremo in grado di impietosirci per la  precarietà del nostro prossimo durante le festività del Natale, ma non sapremo conservare dentro di noi lo spirito che ci animava in quel frangente. I sentimenti li leghiamo molto spesso ai nostri affetti e li allontaniamo dal contesto del nostro territorio e dalla convivenza col tessuto sociale chi si anima al suo interno, per cui non sentiamo nostri i bisogni elementari degli altri. Basterebbe tenere a freno il nostro “Io” atrofizzato e fare emergere il nostro senso religioso che non è semplice devozione ma superamento dei nostri recinti interiori e riconoscimento delle libertà di altri individui. Neghiamo agli altri maggiore assistenza – più asili nido e più sussidi scolastici – perché facendo i furbi abbiamo deciso di non pagare le giuste tasse, contribuiamo all’aumento delle bollette perché abbiamo deciso di taroccare i contatori, di non pagare la Tarsu (o di non fare la differenziata) e  di nascondere una presa d’acqua.
Cosa c’entra tutto questo con lo stupore delle chiese piene? Potrebbe anche non entrarci se la messa non fosse altro (per molti) che una semplice rappresentazione catartica, una forma di allucinazione collettiva in grado di distrarci per qualche ora dalle difficoltà della vita reale. Il problema è che la maggior parte di coloro che la frequentano riconoscono che c’è un messaggio, una parola che si è incarnata e che si è fatta testimonianza.
Il grande dilemma è quello di traghettare questo messaggio fuori dalle mura delle chiese e farlo realmente diventare (come citava la Gaudium et  Spes) sale della terra e luce del mondo. Fra il sentimentalismo e il pragmatismo c’è un Acheronte da attraversare e speriamo che al timone non ci sia un nocchiero di nome Caronte.

 Giuseppe Compagno

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