(Anno B) XIX Domenica del tempo Ordinario

«IO SONO IL PANE VIVO DISCESO DAL CIELO»
(1Re 19, 4-8; Sal 33/34 2-9; Ef 4, 30-5, 2; Gv 6, 41-51)

La storia del profeta Elia è certamente una delle più emozionanti e drammatiche che noi leggiamo nella Sacra Scrittura. Un profeta che è perseguitato proprio perché autentico profeta di Dio. Un uomo, il cui scopo nella vita è stato esclusivamente quello di proclamare la signoria assoluta di Dio e la sua unicità. Un ardente e appassionato uomo di Dio, che deve continuamente fuggire perché la sua vita è minacciata costantemente dall’odio della regina Gezabele e del re Achab, i potenti di questo mondo. Nella sua vita raminga e da fuggiasco egli sperimenta in maniera molto forte e profonda la potenza e la tenerezza materna di Dio che si prende cura di lui, che sta sempre al suo fianco, che gli procura i mezzi di asilo e di sussistenza, anche in maniera straordinaria. Ma non lo esonera dalla prove, dalla persecuzione, dall’angoscia e dal vivere con consapevolezza la sua vita di uomo e di profeta.

L’episodio che ascoltiamo oggi, oltre ad essere un momento toccante dell’esperienza di Elia, acquista un valore aggiunto di straordinaria plasticità in rapporto all’Eucaristia, il mistero del pane disceso dal cielo che diventa l’alimento vitale per l’uomo credente in cammino verso la patria. Elia è stanco di fuggire di fronte all’ira di Gezabele, la sanguinaria regina che aveva introdotto in maniera massiccia e violenta il culto degli idoli, eliminando dal territorio di Israele tutti i profeti e i ministri del culto del Dio vivente, di Jahvé. Elia è l’unico vero profeta rimasto a tenere viva la fiamma della fede originaria dei patriarchi, che gli Israeliti, per comodità, per vigliaccheria, per paura di ritorsioni o per disinteresse avevano abbandonato. Nonostante la sua forte tempra, Elia è scoraggiato, avvilito e ormai stanco di vivere e chiede al Signore di prenderlo con sé, perché la sua vita gli appariva un fallimento. Il Signore lo lascia sfogare, gli lascia dire la sua profonda amarezza e conforta la sua stanchezza con un sonno ristoratore. Il mattino successivo il profeta si sveglia e trova accanto a sé il necessario per sopravvivere: una brocca d’acqua e una focaccia cotta sulla pietra rovente. Egli mangia, beve e si riaddormenta per la grande stanchezza. È un modo di agire con cui Dio sta restaurando le sue forze fisiche e sta sanando le sue ferite emotive, morali e spirituali. Dopo il lungo sonno Elia si risveglia di nuovo. Adesso è una nuova persona. Il Signore ha vegliato sul suo sonno, lo ha risanato e rinvigorito. Quindi si rivolge a lui con autorità mettendogli dinanzi il suo compito: «Alzati, mangia, perché troppo lungo per te è il cammino». Con molta sobrietà il testo aggiunge che Elia fece esattamente tutto quello che il Signore gli aveva chiesto. Il cibo datogli da Dio gli diede nuovo vigore, tanto che poté rimettersi subito in cammino. Non solo. Ma «con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb».
Il linguaggio è altamente simbolico, pur prendendo il via da una situazione concreta che diventa tipica: il cammino, il numero dei giorni, il monte di Dio.

Il cammino indica l’esistenza dell’uomo nella sua varietà e quotidianità ed è un dato acquisito nella mentalità biblica. Lo stesso dicasi per il numero quaranta che racchiude la totalità della nostra esistenza, qualunque sia il numero degli anni. Ed infine la meta finale, il monte di Dio, simboleggia la patria definitiva, il nostro termine di approdo, dove la nostra speranza prenderà corpo e raggiungerà il suo compimento nell’incontro esaltante e beatificante con Dio.
Questa pagina, accostata alla breve porzione del discorso di Gesù sul pane della vita, fa da sfondo interpretativo del testo. Il discorso di Gesù si va snodando, girando a forma di elica, nei suoi vari piani di lettura, che si integrano, si illuminano e si arricchiscono tra loro. Non si può fare una lettura a senso unico, trascurando gli altri sensi e significati che sono chiaramente espressi nel linguaggio di Gesù. Il pane è riferito anzitutto alla fede che alimenta e sostiene la nostra vita. Ripetutamente Gesù sottolinea la condizione: “chi crede ha la vita eterna”. Ma l’oggetto immediato di questo credere è la persona stessa di Gesù: “chi crede in me…”. Egli non è soltanto il figlio di Maria o del falegname di Nazareth, come la gente si ostina ad affermare, ma è il Figlio che il Padre ha mandato, il pane che il Padre ha preparato per la vita del mondo: “io sono il pane della vita”. Egli è il pane che sazia per la vita eterna, Egli è la bevanda di vita che disseta per sempre. Infine, la persona di Gesù, nella sua realtà e concretezza, si fa nostro cibo e nostra bevanda, suo corpo e suo sangue, nel sacramento dell’Eucaristia.

Questi tre livelli di lettura devono essere sempre tenuti presenti e collegati l’uno con l’altro. La fede è l’elemento base che stabilisce e rende vivo, vero ed operante il nostro rapporto con il Signore Gesù. Per il credente Gesù non è soltanto un nome, un’idea, un semplice personaggio storico o una intuizione luminosa, ma è una persona reale, viva e vera con cui si entra in relazione, in comunione intima e personale. A partire dalla fede Gesù viene allora vissuto come il senso, la ragione, la forza, la speranza, la gioia della nostra esistenza quotidiana, colui che viene a colmare la fame e la sete ardente del nostro cuore e del nostro spirito: «Chi crede in me non avrà sete, mai!». Il mangiare e il bere, quali esigenze vitali della nostra esistenza umana, diventano il frasario per indicare tutto ciò che è necessario, di cui non possiamo assolutamente fare a meno nella nostra vita. Gesù si presenta come il necessario, palpito del nostro cuore, anima della nostra anima, soffio del nostro respiro.

L’ultima battuta di questa pagina innesca il collegamento con quanto Giovanni già ben conosce quando scrive il suo vangelo, per cui egli è ben consapevole di quello che Gesù sta affermando, perché rispecchia la prassi viva della Chiesa nascente ed è, per conseguenza, la prassi viva della Chiesa di sempre: «Il pane che io vi do è la mia carne per la vita del mondo». Qui la parola di Gesù acquista un significato universale: questa carne che egli darà, e che è il suo corpo, la sua persona reale, è data per il mondo. Ogni uomo quindi ha un suo misterioso e inevitabile rapporto con il Cristo, con la persona di Gesù. Non c’è rifiuto che possa cambiare di fatto questo legame con il Cristo, anche se ne può impedire l’efficacia personale. Non c’è “sbattesimo”, che possa cancellare e rendere nullo quello che Dio stesso ha compiuto: “Il Padre mio vi dà questo pane”, e che Gesù ha accettato pienamente e liberamente. «Io sono il pane vivo disceso dal cielo». Il nostro vivere, il nostro respirare, il nostro soffrire, il nostro amare, il nostro pensare e il nostro operare è indissolubilmente legato a Lui, perché Egli si è legato una volta per tutte e per sempre e in diversi modi a noi. Che lo vogliamo o meno.

D. Giuseppe Licciardi (P. Pino) 

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