Il denaro ha avuto sempre la sua importanza e Gesù mette in guardia i suoi dal diventarne schiavi. Tuttavia il suo uso è inevitabile tant’è che lo stesso gruppo dei discepoli possiede una cassa comune, gestita da Giuda, e lo stesso Gesù si mostra a conoscenza del valore del denaro quando racconta le sue parabole.
A quel tempo, il valore delle monete coincideva col metallo più o meno prezioso col quale venivano coniate, dunque col loro peso.
I giudei, dominati dai Romani, non avevano il permesso di coniare monete che non fossero di rame o di bronzo e tantissime ne furono coniate dai vari regnanti per imporre la propria
autorità. Si tratta di lepton (prutot in ebraico), quadranti ed assi, che portavano raffigurati frutti, fiori, coppe, anfore e altri simboli che non offendessero il divieto di fare raffigurazioni. Ma erano monete di poco valore e vengono menzionate nel Vangelo con il nome generico di soldi, spiccioli o monete.
L’unica moneta che davvero valeva al tempo di Gesù e non solo, era d’argento: la dracma greca e il denaro romano, che avevano lo stesso valore (circa 3,85 g). Ma soprattutto il siclo di Tiro, che pesava dagli 11 ai 14 grammi di argento ed era la moneta economicamente più stabile del medio Oriente.
Tuttavia nel Vangelo il siclo non è mai menzionato col suo nome, ma viene indicata col generico “moneta d’argento”, oppure col nome delle monete greche: “statere (o tetradrammo) e didrammo”, a seconda se si tratti del siclo o della sua metà. Forse perché all’epoca della redazione dei Vangeli il denaro giudeo non circolava più oppure perché questi nomi, greci, erano più familiari ai non ebrei destinatari della “buona novella”.
Per chi ha dimestichezza con la sacra Scrittura è facile ricordarsi degli episodi in cui si parla del denaro e tuttavia non a tutti è chiaro quale fosse il suo valore. Dobbiamo cominciare necessariamente dal Tempio di Gerusalemme che era una vera e propria banca.
Le tasse e i tributi al tempo di Gesù
Ogni anno, ogni giudeo maschio era tenuto a versare nelle casse del tempio un tributo equivalente ad un didramma, la moneta d’argento coniata in Grecia equivalente a due denari. Ora se ci ricordiamo che la paga giornaliera per un bracciante era di un denaro (Matteo 20,1-16), capiamo a quanto ammontava il tributo da dare al tempio. Attenzione, però, nel tempio non si accettavano altro che monete d’argento coniate a Tiro: il siclo.
Peccato che in questa moneta erano effigiati da un lato l’immagine del dio protettore della città di Tiro, Melkert (o Moloch) al quale i fenici offrivano in sacrificio i propri figli; dall’altro lato, l’aquila, l’uccello sacro a Zeus. Ma poiché il denaro non puzza, i sacerdoti ultraconservatori e attenti a non contaminarsi con immagini idolatriche, sul denaro facevano eccezione e chiudevano un occhio, anzi tutti e due.
Tutti i pellegrini che annualmente si recavano al tempio, portavano le loro offerte e i loro tributi nel conio del loro paese per cui erano necessari i cambiavalute posti nel cortile del tempio che cambiavano (con quale criterio è rimasto un mistero!) le monete straniere con i sicli permessi nel tempio. Ovviamente con una percentuale che rimaneva nelle loro tasche.
Le donne, equiparate agli schiavi ed ai minorenni (sotto i 21 anni), non erano tenute a pagare il tributo al tempio, ma potevano fare elargizioni volontarie. Ognuna dava liberamente mettendo la propria offerta in uno dei 13 corni posizionati nell’atrio delle donne. Sempre ai margini del tempio. Qui viene menzionata da Gesù la vedova che dà tutto quello che possiede, due monetine, cioè due lepton.
A proposito di tributi, ovviamente anche i romani ne pretendevano, ma solo denari d’argento dell’imperatore Tiberio. Queste presentavano l’effige dell’imperatore con la scritta in greco o latino che lo inneggiavano come imperatore e dio (Tiberio imperatore figlio venerabile del venerabile dio, oppure Tiberio imperatore augusto figlio del divino Augusto). Si capisce subito con quale diffidenza era guardata questa moneta e la risposta ironica di Gesù quando lo provocarono se dovevano pagare il tributo ai romani.
Quale era il valore del denaro ai tempi di Gesù?
Con un lepton si potevano comprare due passeri (secondo Matteo 10,29) o cinque passeri con due lepton (secondo Luca 12,6).
Un denaro (probabilmente dracma) era il salario giornaliero di un operaio. Per la stessa moneta, la donna della parabola spazza la casa alla ricerca della dracma perduta. Ma il suo valore esiguo, vuol fare capire quanto interesse mostra Gesù per i discepoli “recuperati” alla fede. 30 denari furono offerti a Giuda per tradire Gesù. Considerato che i soldi dati a Giuda fossero stati presi dalle casse del tempio, dovevano essere sicli, dunque valevano 120 denari, il che non è un caso se pensiamo che secondo Es 21,32, questo era il prezzo per riscattare uno schiavo. Quanto poco doveva valere questo Gesù agli occhi dei suoi nemici!
Con due denari il buon samaritano assicura al malcapitato della parabola una pensione completa per due o tre giorni nella locanda. Per sfamare una folla occorrevano almeno 200 denari a sentire i discepoli nell’episodio della moltiplicazione dei pani. E quanto doveva essere prezioso il profumo versato sul capo di Gesù dalla donna di Betania se poteva essere venduto per 300 denari?
Ancora più sorprendente è il valore delle Mine e dei Talenti. Qui non parliamo più di monete ma di pesi e dunque di valori simbolici per grandi quantità. Una mina equivaleva a quasi 600g di argento. Un talento valeva 60 mine, cioè più di 34 chili di argento: approssimativamente 30 anni di lavoro di un operaio! Da qui si capisce il debito condonato dal padrone, 10.000 talenti (una cifra spropositata) contro i 100 denari che lo stesso debitore esigeva da un suo simile. E il servo che riceve un talento e lo nasconde sotto terra, in realtà ha rinunziato ad una fortuna: tutto quello che avrebbe potuto guadagnare nella intera vita! Da qui si capisce la severità di Gesù: in sostanza, seppellendo il suo talento, quell’uomo non ha fatto altro che buttare via la sua vita.
Saverio Schirò