15 maggio 2015. Massimo ci ha lasciato.
Ciao Dado. No, non ti ho dimenticato. Forse un po’. D’altronde la vita vince sempre e le nostre hanno continuato a scorrere con il loro tran tran quotidiano, come se tu non fossi mai esistito.
Mi sento quasi uno stupido parlarti o meglio a scriverti come se tu potessi leggermi, ascoltarmi dentro, mentre invece probabilmente non puoi farlo più. Chissà dove sei adesso.
Mi ricordo che durante la tua malattia, scherzavamo sulla morte e ci dicevamo che una volta andati, ci saremmo presi l’impegno di comunicarci un segno che lassù si continuava a vivere. Ancora aspetto, Massimo. Non ti sei fatto sentire. A meno che sei venuto in qualche modo ed io non ti ho riconosciuto.
Il fatto è che non ho idea del modo in cui tu puoi farti sentire, darmi un segno della tua presenza, il conforto che dopo questa vita qualcosa ancora rimane di noi.
Non sono sicuro di crederci per davvero.
Certo, lo spero, come tutti, ma una cosa è sperare di continuare a vivere in eterno e una cosa è crederci. Un po’ come te, che ti poggiavi nella speranza della guarigione mentre avevi la certezza di non farcela. E lentamente sei passato dalla speranza che Dio potesse avere misericordia di te guarendoti, alla consapevolezza che quel silenzio assordante potesse equivalere ad una assenza imbarazzante. Ed hai smesso di sperare, hai smesso di pregare, forse anche di credere. Nessuno può saperlo questo.
Ma come biasimarti. Vivendo accanto a te questi lunghi dieci anni di malattia, anche le mie certezze in tema di fede sono cambiate. Perché negarlo. Sicuramente per quanto riguarda la sua forma, quella scritta nei libri di catechismo e predicata da secoli dai nostri preti, vescovi e papi. Dio non può essere così come loro dicono. Non coincide con la vita che viviamo ogni giorno specialmente con quella di tutti coloro che soffrono. Come te Massimo, che hai sofferto le pene dell’inferno.
Mi ricordo benissimo quando mi dicevi che semmai esistesse, l’inferno non poteva essere peggio di quello che stavi vivendo tu. Ed era vero.

Massimo Bisconti1Vallo a spiegare ai signori che sanno tutto di Dio e della fede cosa significa rimanere sempre di più dentro un corpo che non risponde ai tuoi comandi, anzi che non risponde a nessun comando. Un involucro vuoto di vita e di anima che si va asciugando fino a rimanere un groviglio di ossa e vene e nervi che trasmettono solo il dolore.
Che ne sanno loro di una macchina attaccata ad un buco nel tuo collo che ti consente di ricevere aria, non di respirare, ma ricevere soltanto un alito che troppo spesso non ti sembra bastare e ti senti di affogare e nessuno può aiutarti.
Vallo a spiegare cosa significa non riuscire a comunicare, se non con un filo di voce che diventa sempre più incomprensibile agli altri che non ti capiscono e non sanno di cosa hai bisogno. E infine potere muovere solo gli occhi, sbarrati, a volte anche di notte, per dire che avevi paura, paura che la macchina si fermasse, paura di rimanere da solo, paura di morire.
Quando stiamo bene facciamo a volte gli arroganti parlando della morte e ricordo come anche tu, prima di cominciare la tua via crucis affermavi con sicurezza che la morte sarebbe stata preferibile ad una vita condannata su di una sedia a rotelle. E ricordo perfettamente quando già malato e contorto nello spasimo per muovere il mouse del computer dicevi che finché avresti potuto muovere anche un mignolo, volevi vivere.
Mi hai insegnato tantissimo con la dignità con cui hai affrontato questa terribile malattia. Proprio a me che stimavi e consideravi con un rispetto speciale. Ne sono fiero adesso di questa stima perché Massimo, te lo voglio dire: sei stato un grande!
Con tutti i tuoi difetti, i tuoi limiti, le tue miserie… e chi non ne ha?
Mi ricordo come ti incazzavi certe volte, anche con me, soprattutto con me quando mi mettevo duro per non assecondare il tuo bisogno irrefrenabile di essere ventilato continuamente con l’ambu. E come probabilmente mi odiavi in quei momenti perché mi rifiutavo di assecondare la tua necessità di ricevere quel miserabile sollievo di un po’ d’aria in più in quei polmoni rinsecchiti. E come passavi da una sorta di devozione per la gratitudine di averti salvato la vita quel giorno al Pronto Soccorso, al detestarmi per non averti lasciato morire. Il torto è stato nostro, tu avevi bisogno e noi facevamo solo psicologia spicciola.

Perdonaci Massimo, ma eravamo stanchi e avviliti pure noi, specialmente Rosalba, tua moglie, che  ti ha accompagnato minuto per minuto per tutto il tempo fondendo il suo dolore al tuo. Che amore che è stato! Un amore davvero straordinario al di là delle parole che tutti facilmente pronunciamo e che poi non mettiamo quasi mai in pratica. Anche questo per me è stato un grandissimo insegnamento.
Vedi Massimo, volevo ricordarti al di là della malattia che ti ha portato via, ma è stata proprio quella che mi ha consentito di conoscerti. Com’è strano, senza tutto questo, la tua vita sarebbe scivolata via ordinariamente, banalmente, come la maggior parte delle nostre. Ma certo, tu avresti preferito vivere anche in questo modo “banale” e invece sei volato via, come ha scritto Mirko su Facebook il giorno della tua morte:

Dopo tanti anni di malattia sei andato via. Hai lasciato un segno enorme nelle vite di tutti noi. Hai lottato per tanto tempo, ma anche il miglior guerriero depone le armi a un certo punto. La forza e il coraggio con cui hai affrontato una malattia tremenda, sono un esempio di caparbietà per tutte le persone che soffrono e stanno male. Io voglio ricordarti così, perché fino a quando sei stato capace, mi hai sempre donato un sorriso. Non so cosa c’è dopo, e non ho idea di dove andrai. Ma ovunque tu sia, buon viaggio Massimo. Ti voglio bene. Sei riuscito a volare…

A mio cognato Massimo ucciso dalla SLA
Saverio Schirò

 

 

LASCIA UN COMMENTO

Per Favore scrivi il tuo commento
Per favore inserisci il tuo nome