Lettera al mio dottore

Caro dottore,
quando ero bambino, come tutti i bambini, mi piaceva essere malato. Perché il bambino malato è un bambino viziato. Fu allora che per la prima volta, udii pronunciare quella parola che tante volte avrei ritrovato durante la mia vita come segno di gran dignità: la parola “dottore”.
Per me, come per gli altri bambini, il dottore era l’essere magico principale: quello che indovina, che allevia, che conforta.

E, per il bambino, è anche quello che sta vicino al nonno e alla nonna fino al loro ultimo respiro.
A quel tempo pensavo che il dottore, essendo presente tanto alla fine della vita come al suo inizio, era l’uomo che conosceva tutti i segreti della vita e della morte. E all’età di dieci anni, già ambizioso, il mio sogno più grande era quello di diventare dottore, un giorno.
Come mi manca, caro dottore! Per tanti anni, fino alla sua morte, lei mi ha curato e guarito. E, da allora, non ho più trovato un medico simile a lei.

Ciò che mi ha intimamente avvicinato a lei, a tal punto da essere diventato amico mio, è il fatto che pur dottore, lei era anche un vero filosofo.
vecchio dottore[…] Lei mi ha insegnato che ogni uomo che si lamenta di soffrire è un uomo sano che non sa di esserlo… Perciò la sua teoria era quella che il medico è colui che impedisce di essere ammalati e che non si consulta più – e che non si paga più – quando si è ammalati. Il medico deve insegnarci l’igiene, ossia l’arte di non ammalarsi.

Caro dottore, lei insegna la saggezza di cui bisogna dar prova per non essere mai ammalati. Questa era la sua medicina e questa era anche la sua filosofia.
Un’altra sua idea era che la stanchezza non proviene da ciò che si fa. Ciò che si fa, se lo si fa a fondo e con passione e con tutto il proprio cuore, non stanca mai. Ciò che stanca è il pensiero di ciò che non si fa.
È lei, dottore, che mi ha insegnato che io ero fatto per il superlavoro. Ero, e lo sono ancora, un gran nervoso. Non so non fare nulla.
«Soprattutto, soprattutto» lei insisteva quando la chiamavo a casa mia «non la smetta di affaticarsi, si ammalerebbe!» Poi seguiva il suo consiglio “medico”: «Quando si riposa, si riposi a fondo; quando si distrae, si distragga a fondo; e quando mangia o beve, lo faccia a fondo».

Soleva dirmi che il gran segreto della felicità, l’arte suprema della vita era di praticare ciò che i mistici chiamano l’abbandono. Bergson in seguito mi dette un consiglio simile quando un giorno i disse: «D’ora in avanti ho deciso che farò senza fatica ciò che un tempo facevo con fatica».
Era la regola di santa Teresa del bambin Gesù e di tutti i grandi mistici.
Così, per star bene, lei preconizzava semplicemente di sopprimere la fatica.

La sua qualità principale era quella di essere disponibile a qualsiasi ora del giorno. Era devoto, gentile, gioviale. Metteva in tutto quella mescolanza di ironia e d’amore che si chiama umorismo. E l’umorismo non è poi tanto lontano dall’amore: l’umorismo è amore nascosto sotto il velo dell’ironia.
Alla fine della sua visita, lei scriveva su una bella carta la ricetta: “Nessuna cura perché non ha nulla da curare”.

Poi, un giorno, in fondo alla pagina, ha aggiunto: “Opportuno l’uso del bastone”. Da quel giorno esso non mi ha mai abbandonato. Aveva ragione: il bastone è come un gentile compagno, muto e dolce, che mi collega al suolo.

Oggi, dato che il numero dei miei anni si avvicina al secolo, mi chiedo talvolta quali sarebbero i consigli che mi lei darebbe per aiutarmi a invecchiare bene.
Allora mi tornano in mente due considerazioni e mi sembra di udirle ancora: «Invecchiare significa avere tutte le età». E anche: «Invecchiare significa vedere Iddio da più vicino».

Dottore, lei ha ragione.

Jean Guitton

Tratto da J. GUITTON, Lettere aperte, Mondadori Milano 1995

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