L’assemblea liturgica, un popolo che prega. Come sono e come dovrebbero essere le celebrazioni eucaristiche.

Una riflessione sul modo in cui oggi viviamo le celebrazioni eucaristiche nelle nostre comunità perché sia uno spunto per aiutarci a vivere al meglio il Mistero che ogni domenica siamo chiamati a partecipare.

La partecipazione attiva e cosciente del popolo di Dio alla vita cultuale della chiesa è un diritto dovere di ogni fedele in forza del suo essere popolo sacerdotale“. Così viene affermato nella costituzione Sacrosantum Concilium del 1965. Indubbiamente una idea di rinnovamento importante, per quanto ancora timidamente accennata, che ha aperto la porta a riflessioni profonde in campo liturgico.
Ma guardando alle assemblee che si riuniscono per ogni celebrazione viene da chiedersi quanto è stato realizzato a distanza di più di cinquanta anni di questi ottimi propositi?

Come dovrebbero essere le Assemblee celebranti

Quando si parla di Chiesa nel cristianesimo, bisogna ricordarlo, non ci si riferisce ad un edificio, ma all’assemblea dei fedeli che si radunano in nome di Cristo sotto la presidenza del vescovo o di un presbitero che ne fa le veci. Un’assemblea fatta di persone in comunione tra di loro che con Cristo, celebrano insieme il giorno del Signore. Dunque è naturale che ogni fedele partecipi attivamente e consapevolmente alla celebrazione comprendendo il senso ed il significato di  ogni gesto liturgico secondo il suo stato.

Il presbitero esercita il suo ministero di presidente con partecipazione interiore cercando di fare apparire con il suo portamento umile e discreto, con il modo di pronunciare le orazioni, di annunciare la parola e con i gesti misurati, che il vero presidente è il Cristo.

I lettori proclamano con calma e voce chiara le letture che hanno precedentemente meditato, meglio ancora attraverso una lectio biblica comunitaria settimanale.

Gli accoliti e i ministranti svolgono il loro servizio all’altare e all’assemblea con ordine e competenza.

L’assemblea del popolo di Dio si raccoglie con puntualità: ascolta, prega, canta, partecipa con i movimenti e gesti composti e consapevoli.

Il coro anima la celebrazione con canti appropriati al momento liturgico, senza protagonismo o inclinazione alla spettacolarità.

Tutti insieme, poi al termine della celebrazione concretizzano la realtà del loro essere Chiesa fermandosi nel sagrato per salutarsi e comunicarsi con cordialità e partecipazione le vicende personali e familiari e a concordare le attività e le iniziative della comunità.

Un rinnovamento liturgico ancora in divenire

Se per molte comunità ecclesiali questa condizione è già uno stato di fatto e per questo sono vive e attive, molte ancora vivono celebrazioni approssimative, distratte e purtroppo passive. Occorre un “paziente lavoro per la formazione liturgica dei fedeli perché si riapproprino del proprio ruolo di soggetto della celebrazione e dei ministri ordinati perché prendano consapevolezza del loro ministero della presidenza non soltanto in nome di Cristo ma anche in nome della Chiesa”, come hanno già affermato Giovanni Paolo II ed il suo successore Benedetto XVI (Vicesimus quintus annus; Sacramentun caritatis).

Il sacerdozio dei fedeli e il sacerdozio ministeriale sono due aspetti dell’unico Sacerdozio di Cristo.

Formazione liturgica dei fedeli ma anche dei ministri ordinati perché le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. I singoli fedeli vi sono tutti interessati, a diverso titolo e secondo gli stati, i ministeri, i compiti (cf. Sacrosantum Concilium 26).
Ancora più chiaramente l’articolo 48 precisa il significato della partecipazione: «La Chiesa si preoccupa che i fedeli non assistano come muti spettatori al mistero eucaristico, ma comprendendolo bene per ritus et preces, partecipino all’azione sacra consapevolmente, pienamente e attivamente, siano istruiti nella parola di Dio, si nutrano alla mensa del corpo del Signore, rendano grazie a Dio, offrendo la vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui imparino a offrire se stessi (cf. Ordinamento Generale Messale Romano 83, 95).

Naturalmente un così ardito proposito di “concelebrazione” tra sacerdote e popolo di Dio è stato ridimensionato nel significato dalle Istituzioni successive (Redemptionis sacramentum 42): guai ad usurpare un primato sacrosanto!
Tuttavia le dichiarazioni conciliari Lumen Gentium e Presbyteriorum Ordinis affermano con chiarezza che tutto il popolo cristiano è insignito di una vera dignità sacerdotale in quanto incorporato a Cristo col Battesimo: “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo”. (LG 10).

Un sacerdozio che è sempre unico: unico in Cristo e unico nella Chiesa. Nella Chiesa si esprime in due dimensioni. Due dimensioni che non indicano differenza di gradualità, maggiore nei ministri e minore nei fedeli, ma esprimono due diversi modi essere o di esistere dell’unico sacerdozio di Cristo nella Chiesa.

Il popolo, assemblea celebrante

Ma al di là dei limiti, diciamo, istituzionali, è lo stesso popolo di Dio che tante volte non riesce a far suo questo concetto di assemblea celebrante che lo vuole coinvolto, attivo e consapevole di grandissimo valore delle azioni compiute durante la celebrazione eucaristica.
Ovviamente non esistono categorizzazioni assolute per la grande varietà di culture, vissuti personali e capacità e qualità umane, anzi questo ultimo aspetto è il più importante perché le regole sono direttrici da seguire ma poi dipende dalla santità e saggezza di chi guida.
Abbiamo così:

Assemblee rassegnate in cui il sacerdote si sente protagonista assoluto della celebrazione: entra con atteggiamento pomposamente ieratico in processione solenne accompagnato dai ministranti, con modi autoritari interviene ad ogni momento per dare direttive, impone all’assemblea gesti e riti superflui che dicono qualcosa soltanto a chi li ha inventati e hanno bisogno di continue e interminabili spiegazioni per essere giustificati. L’omelia, lunga, noiosa e scontata, spazia dalla lezione esegetica intrisa di disquisizioni teologiche, all’analisi sociologica o alla lamentela sulla tristezza dei tempi e la secolarizzazione della società.
Ovviamente la brama di potere è contagiosa ed i ministri e i ministranti stanno a litigare per accaparrarsi o rivendicare ruoli e compiti che li mettano in vista. Il coro, non tenendo conto del suo ruolo ministeriale a servizio della partecipazione dell’assemblea né dei momenti della celebrazione e dei tempi liturgici, si esibisce con il suo repertorio più o meno pertinente con la celebrazione,  costringendo i fedeli alla passività e incoraggiandone la naturale pigrizia.

Assemblee apatiche sono quelle nelle quali domina la monotonia e la stanchezza. Il sacerdote non si prepara per la celebrazione e di conseguenza non mette alcuna anima nella presidenza. Pronuncia preghiere a carattere privato con lo stesso tono e volume con cui proclama la lettura evangelica o le orazioni presidenziali o la preghiera eucaristica. Le letture sono proclamate da qualche volenteroso lettore invitato all’ultimo momento. L’omelia è improvvisata, lunga e solitamente moralistica. I ministranti, abbandonati a se stessi, fanno quel che sanno e possono per dare vita alla celebrazione. Qualche gruppo volenteroso accompagnato da una chitarra esegue canzonette che nulla hanno a che fare con la celebrazione, i momenti e i tempi liturgici. Ed i fedeli rassegnati, assistono apatici ai rituali con i più vecchi immersi in antiche devozioni, “svegliati”, come erano soliti un tempo, dalla campanella che li avverte che qualcosa di importante sta accadendo sull’altare.

Assemblee nostalgiche del passato, fortunatamente in estinzione, sono quelle che si raccolgono intorno a qualche prete, a volte giovane, nostalgico di una liturgia che non ha conosciuto, il quale si cimenta, rivolto con le spalle al popolo, con il Messale tridentino del 1962, in latino, spesso senza neppure comprendere quel che si dice, mischiando a piacimento vecchio e nuovo, dinanzi a fedeli che in ginocchio si dedicano alle proprie devozioni, ma fieri di essere fedeli alle antiche tradizioni.

C’è ancora molto da fare

I cambiamenti sono postulati ed oggi più che mai necessari dal momento che spesso la celebrazione liturgica domenicale è l’unico momento destinato alla preghiera ed alla meditazione per la maggior parte di credenti. Assemblee che si riuniscono ogni domenica come un popolo di sconosciuti, privi dello spirito di accoglienza, distratti e obbligati a partecipare solo per senso di dovere, alla mercé di sacerdoti presidenti approssimativi di siffatte celebrazioni liturgiche, sempre più sono demotivati a partecipare con spirito attivo e consapevole.
Chi poi, non abituato a frequentare le nostre liturgie, si trova a parteciparvi, si sente così poco coinvolto e interessato che si farà una pessima opinione della Messa domenicale continuando a disertarla.

Cosa fare? Il problema ha radici piuttosto lontane

La liturgia è l’azione cultuale della Chiesa. Ma su chi è la chiesa si è creato un profondo equivoco che ancora oggi si respira. Dal medioevo e fin dopo il XVI secolo è stata la quota gerarchica e istituzionale che si identificava come chiesa e la liturgia ne diventava il complesso di norme che chi ne aveva il potere esercitava. Il popolo rimaneva il soggetto assolutamente passivo di cui al limite si poteva pure fare a meno.

Ma già dall’Antico Testamento e ancor più nel Nuovo viene chiarito che il termine Ecclesia, indica proprio la convocazione sacra del popolo al cospetto di Dio. E considerando l’espressione della chiesa come corpo di Cristo, solo così, nel suo insieme si può concepire l’azione cultuale dell’azione liturgica come azione dei fedeli che tutti insieme prolungano oggi la presenza corporale di Cristo terreno. Tutti insieme con attitudine locale, cioè nelle singole porzioni di spazio e tempo, continuano l’azione sacerdotale di Cristo. Ognuno secondo i ruoli ed i ministeri a cui è preposto.

E invece ancora oggi molti sacerdoti “celebrano” la messa in perfetta solitudine, cioè senza la partecipazione di alcun fedele. Pratica ammessa giuridicamente ma a mio giudizio  liturgicamente discutibile.

Si capisce quanto è difficile invertire la rotta senza la presa di coscienza del popolo di Dio che è capace di assumere la responsabilità sacerdotale “pretendendo” amorevolmente di essere riconosciuto parte attiva, indispensabile e fondamentale di ogni celebrazione liturgica e laddove si trovi “resistenza istituzionale”, non avere paura, timidezza o sensi di colpa a cambiare “parrocchia”, a costo di fare chilometri.

Saverio Schirò

Fonti: S. MARSILI ED, La liturgia, momento nella storia della salvezza, Casale Monferrato 1984, pg 127-136

P. SORCI, Che ne è oggi dell’assemblea celebrante, in Rivista di Pastorale Liturgica  298 [3/2013].

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