Jefte e lo sciagurato giuramento

Non aveva avuto una felice infanzia, né una fanciullezza spensierata, e la sua giovinezza la conduceva con una banda di giovani sfaccendati, pronti a mettere mano alle armi, e che vivevano facendo scorrerie nei dintorni. Lo conoscevano tutti, anche per le audaci imprese che ogni tanto compiva contro gli Ammoniti, che tenevano Israele sotto il giogo dell’oppressione.
Questo giovane forte e valoroso, che conduceva una vita da emarginato si chiamava Jefte.
Jefte era figlio di Galaad, ed era nato da una prostituta. Gli altri fratelli, nati dalla moglie di Galaad, quando divennero adulti non vollero più con loro il fratellastro e lo cacciarono da casa per non dividere con lui l’eredità.
Jefte era vissuto in un ambiente in cui erano presenti culture, lingue e religioni diverse, ed il vivere insieme con persone di altre fedi religiose aveva fatto sì che gli Israeliti avevano cominciato a praticare i culti pagani e seguire le pratiche idolatriche. Lo stesso Jefte era imbevuto di false credenze, che gli apparivano del tutto normali, data la convivenza con gli altri popoli.
Quando dopo un lungo periodo di oppressione da parte degli Ammoniti gli Israeliti si rivolsero al Signore ed eliminarono gli dei stranieri, scesero in guerra per combattere i loro nemici, ma si chiedevano chi li dovesse guidare. Allora gli anziani di Galaad andarono a trovare Jefte e gli chiesero di mettersi a capo delle loro schiere e sconfiggere i nemici.

All’inizio Jefte si mostra, ed a ragione, un po’ risentito con loro: “Non siete forse voi che mi avete odiato e scacciato dalla casa di mio padre? Perchè venite ora che vi trovate in difficoltà“. Essi si scusarono e promisero che se avesse combattuto con loro e sconfitto gli Ammoniti, sarebbe diventato il capo di tutti gli abitanti di Galaad.
Questo riconoscimento convinse Jefte il quale rispose: “Se il Signore li mette in mio potere, io sarò il vostro capo“. E s’impegnarono con giuramento. Quindi gli anziani lo condussero davanti al popolo e venne costituito capo e condottiero degli Israeliti.
Jefte tentò dapprima di risolvere in maniera pacifica la questione con gli Ammoniti, chiedendo loro di lasciare il popolo d’Israele in pace. Ma le trattative non approdarono ad alcun risultato. Cosicché la soluzione venne affidata alle armi.
Dopo aver attraversato il territorio di Galaad e Manasse, Jefte si trovò di fronte all’esercito degli Ammoniti. Prima di affrontarli in battaglia, fece un voto al Signore, seguendo i costumi dei cananei che solevano praticare i sacrifici umani: “Se tu mi dai nelle mani gli Ammoniti, la prima persona che uscirà da casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per il Signore ed io l’offrirò in olocausto“.
La legge degli Israeliti proibiva esplicitamente queste macabre usanze. Ma la lunga convivenza con i popoli idolatri, a poco a poco aveva indebolito la sensibilità religiosa degli Israeliti, che cominciavano a ritenere del tutto normale quello che facevano gli altri popoli.

Lo stesso accade sempre, quando veniamo ad essere profondamente influenzati dall’ambiente in cui viviamo così che finiamo col pensare e col vivere come vivono gli altri, ed il nostro senso morale si va adeguando agli standard dell’opinione comune. Ed oggi la nostra società, che fino ad alcuni decenni addietro si proclamava cristiana, ha cambiato i suoi valori morali sui delicati temi della vita, del matrimonio e della famiglia, finendo con il ritenere lecito quello che semplicemente è diventato o va diventando il normale costume della società.

Jefte era caduto in questa sottile trappola. E il tragico destino volle che, quando egli ritornò a casa vittorioso dalla guerra contro gli Ammoniti, la prima persona che gli corse incontro, accompagnata da altre ragazze che suonavano i timpani e danzavano in suo onore, fu proprio la sua unica figlia. Immaginate come si sentì il cuore di Jefte, che invece di gioire per il successo, sprofondò nella più nera ed inconsolabile disperazione. Si stracciò le vesti, e disse: “Figlia mia, tu mi hai rovinato!”.
Lui stesso, insieme con la figlia, sono vittime dello sconsiderato voto fatto al Signore, quando il Signore non lo gradiva affatto. “Ho dato la mia parola al Signore e non posso rifiutarmi“.
Povero Jefte, invece che al Dio della vita, aveva dato ascolto alle riprovevoli usanze umane. La figlia, che condivideva questo tipo di mentalità, rispose: “Se hai dato la tua parola al Signore, fa secondo quanto hai promesso. Solo, concedimi altri due mesi di vita, perchè io possa piangere la mia verginità con le mie compagne“.
Il padre glielo consentì ed essa andò su per i monti con le sue compagne per piangere la giovinezza di cui non aveva potuto godere il frutto. Così, quello che doveva essere un giorno di gloria e di grande gioia, divenne per Jefte giorno di afflizione e di lutto inconsolabile.

Giuseppe Licciardi

(Le vicende narrate sopra si trovano al capitolo 11 del Libro dei Giudici)

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