Debora, Giudice e Profetessa

Se il libro di Giosuè ci presenta ci presenta la conquista della Terra Promessa come già avvenuta, il libro dei Giudici, in maniera molto realistica ci racconta, anche se in forma spezzettata, le grosse difficoltà che le varie tribù d’Israele hanno incontrato nella fase di insediamento in quelle terre che erano state loro assegnate da Giosuè. Qui ci vengono raccontati tanti episodi, che vedono gli Israeliti ora abitare in pace nel territorio assegnato a ciascuna tribù, ora invece sotto il dominio e l’oppressione dei vari popoli che abitavano quei territori. Il racconto è organizzato nel quadro di una visione teologica, per cui quando gli Israeliti si allontanavano dalla fede in Jahvè e cominciavano a praticare i culti idolatrici, “facendo ciò che è male agli occhi del Signore“, allora cadevano nella mani dei loro nemici. La situazione di sofferenza e di oppressione li portava ad un ripensamento della loro condotta ed allora cominciavano a supplicare il Signore, il quale interviene in loro favore, mandando un giudice che li liberava e consentiva loro di vivere un nuovo periodo di pace e di prosperità. La figura di questi personaggi carismatici era quindi episodica, e diventava un segno della misericordia di Dio.

Tra le figure dei Giudici troviamo eccezionalmente una donna, Debora, che viene chiamata dal Signore, nel momento in cui gli Israeliti gridarono al Signore per liberarli dall’oppressione di Iabin re di Canaan. Egli li teneva sempre sotto il suo dominio, facendosi forte dei suoi novecento carri di ferro, guidati da Sisara, generale del suo esercito. Debora viene presentata come profetessa e giudice d’Israele. Era una donna di grande fede e dotata di forte ascendente presso il suo popolo che la rispettava, e si rivolgeva a lei per tutte le questioni che sorgevano tra le varie famiglie e lasciavano che fosse lei a dirimere ogni situazione con la sua autorità morale e la sua saggezza ed equità. Era sposata con Lappidòt ed era solita ricevere le persone sotto una palma del loro terreno, chiamata dal popolo “la palma di Debora“. In un’epoca in cui gli uomini avevano deviato dalla retta fede o l’avevano lasciata addormentare per pigrizia, indifferenza o mancanza di coraggio, ecco che il Signore suscita una donna, come ad indicare che il suo desiderio era quello di rigenerare lo spirito del suo popolo e ricondurlo a Lui. Non è un caso che, nel suo cantico di ringraziamento e di lode a Dio, Debora chiami se stessa “madre in Israele“.

Mentre il popolo si rivolgeva a Dio, Egli rispondeva dando a Debora le opportune indicazioni per liberare il suo popolo. Così Debora, illuminata da Dio, manda a chiamare Barak, figlio di Abinòam, della tribù di Neftali, che il Signore gli aveva indicato come la persona adatta a guidare gli Israeliti verso la liberazione dall’oppressione di Iabin. Quando Barak si presenta, Debora subito gli dice con ferma convinzione: “Sappi che il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine“. Non è lei quella che da ordini. Lei è soltanto la portavoce e si limita a riferire a Barak, quello che il Signore le ha rivelato. Così aggiunge: “Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di te, al torrente Kison, Sìsara, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua gente che è numerosa, e lo consegnerò nelle tue mani“. Il piano è già stato fatto da Dio stesso che chiede a Barak di fidarsi semplicemente di Lui , che gli garantisce la vittoria. Nonostante questa assicurazione, Barak resta un po’ titubante, come se non avesse piena fiducia in se stesso e nelle sue capacità e nemmeno nella parola di Dio. Ed infatti risponde a Debora: “Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò“.

Debora non si tira indietro, ma gli dice quale sarà la conseguenza di questa sua poca fede. Dio manterrà ugualmente la sua promessa, ma il merito della vittoria verrà attribuito ad una donna, nelle cui mani il Signore consegnerà Sisara. Una volta dato il suo consenso, Debora va con Barak, che si organizza per la battaglia. Si recano a Kedesh e lì si mettono al suo seguito diecimila uomini delle tribù di Zabulon e di Neftali. Proprio vicino a Kedesh aveva piantato le sue tende Cheber il Kenita. Le spie informano Sisara che Barak era salito sul monte Tabor. Così Sisara si mosse con i suoi novecento carri e con tutto il suo esercito, sicuro che avrebbe travolto gli Israeliti. Ma non appena Debora scorse l’esercito nemico, si rivolse a Barak e gli disse: “Àlzati, perché questo è il giorno in cui il Signore ha messo Sìsara nelle tue mani. Il Signore non è forse uscito in campo davanti a te?”. Debora sa che il Signore combatte per il suo popolo e non ha alcun dubbio sulla sorte della battaglia. L’esercito di Sisara viene travolto e Barak con i suoi diecimila uomini si gettano all’inseguimento dei nemici, fino alla completa sconfitta. Sisara, riesce a fuggire e si mette a correre a piedi, fino a giungere presso la tenda di Chebar il Kenita.

Davanti alla tenda c’è Giaele, moglie di Chebar, che riconosce Sisara e lo invita ad entrare nella sua tenda dove potrà trovare rifugio. Infatti c’era pace tra Iabin e Cheber il Kenita. Sisara è stanco, affamato ed assetato. Così chiese da bere a Giaele, che gli versò del latte dall’otre pieno e glielo diede da bere. Quindi lo coprì con una coperta, rassicurandolo. Egli gli chiese di stare davanti all’ingresso, nel caso venisse qualcuno e chiedesse di lui, in modo da rispondere che da lì non era passato nessuno. Così Sisara si addormentò di un sonno profondo. Giaele a questo punto si avvicinò a lui, prese un picchetto della tenda e con un martello glielo confisse nella tempia, fino a farlo penetrare in terra. Così morì Sisara. Dopo un poco passò di là Barak e Giaele gli si fece incontro dicendo:”Vieni, ti mostrerò colui che cerchi“. E Barak vide Sisara morto, con il picchetto nella tempia. Per Iabin quello fu l’inizio della sua fine, perché ben presto gli Israeliti ripresero il controllo del loro territorio e finalmente ottennero la pace. Quel giorno Debora elevò un inno al Signore: “Ascoltate, o re, porgete l’orecchio, o sovrani; io voglio cantare al Signore, voglio cantare inni al Signore, Dio d’Israele!” . Da quel giorno la terra d’Israele rimase tranquilla per quarant’anni.

Giuseppe Licciardi (Padre Pino)

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