(Anno C) XXX domenica del tempo ordinario

“O Dio, abbi pietà di me peccatore”
(Sir 35,15-17.20-22; Sal 33; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14)

Ancora una parabola sulla preghiera, nel caso che ci fosse sfuggita la sua importanza nella nostra vita, anzi la necessità della sua presenza continua, come abbiamo appreso la scorsa domenica. Oggi però Gesù intende parlarci di un aspetto forse un po’ trascurato da molti credenti, ma che pure costituisce la condizione indispensabile per la validità della preghiera stessa, e cioè l’atteggiamento interiore di chi prega. Infatti Luca, nel presentarci quest’altra parabola di Gesù, dichiara apertamente che essa viene raccontata per dare una salutare lezione a quanti pregano, sì, ma nutrono la presunzione di essere giusti, di essere apposto, e si sentono autorizzati a giudicare gli altri. Una parabola interessante, quindi, per tutti coloro che hanno il desiderio di imbarcarsi, o già si trovano immersi, in una vita di preghiera. Comprendiamo allora che questa parabola ci tocca da vicino
perché non solo Luca ci riferisce un insegnamento del Signore collocato nel mondo giudaico, ma egli lo fa riascoltare alle comunità cristiane che si andavano formando, quando egli scrisse il suo Vangelo. Per conseguenza oggi lo fa ascoltare a noi. I protagonisti di questa parabola sono tre: un fariseo, un pubblicano e, chiaramente, Dio che fa da giudice.

Parlando degli scribi e dei dottori della legge, persone molto competenti per quel che riguarda la conoscenza della Parola di Dio, un giorno Gesù ebbe a dire ai suoi discepoli, per metterli in guardia nei loro confronti, ma anche per educarli ad un sano discernimento: “Fate quello che essi vi dicono, perché vi dicono cose buone e giuste, ma non fate quello che essi fanno”. Riascoltando questa parabola, penso che potremmo parafrasare il monito di Gesù, affermando: “Fate tutto quello che fa questo fariseo, perché agisce in modo davvero esemplare, ma non fate vostro il suo atteggiamento interiore”. Ed invece, riguardo al pubblicano, un peccatore riconosciuto, ladro ed estorsore, potremmo dire: “Non fate quello che lui fa, perché si comporta in modo veramente riprovevole e disgustoso, ma fate vostri i suoi sentimenti ed atteggiamenti interiori nei confronti di Dio”. Quando infatti arriviamo alla conclusione della parabola, sentiamo quello che dice Gesù a proposito di questi due individui che si erano recati al tempio per pregare, riferendoci il risultato finale della loro preghiera: il fariseo, giusto ed irreprensibile osservante della legge, non viene giustificato davanti a Dio, mentre l’odioso pubblicano viene giustificato.

Come mai ci troviamo di fronte a questo giudizio divino che capovolge totalmente il modo di vedere degli uomini? La risposta ci viene data da Gesù stesso, quando ci rivela il senso della parabola che sta a valutare non il comportamento in quanto tale, per come gli uomini lo possono vedere e giudicare, ma l’atteggiamento interiore, i pensieri del cuore di questi due oranti. Se ascoltiamo infatti la preghiera del fariseo, ci rendiamo conto di come egli si comporta nella società e nei confronti della legge di Dio. Ne viene fuori l’immagine di una persona, onesta, generosa nel fare le opere di carità e nel sostenere le spese per il culto del tempio, capace di praticare il digiuno due volte la settimana, ed in più fedele alla moglie. Cosa è che non va in quest’uomo “perfetto”? Il suo atteggiamento interiore, il fatto che è troppo pieno di sé, che si compiace del suo sentirsi a posto, e per di più il fatto che si sente autorizzato a giudicare gli altri, che per lui sono tutti da gettare, compreso quel tizio che gli stava dietro e che quasi si nascondeva. Inoltre il Vangelo ci dice, che pur rivolgendosi a Dio, in fondo stava parlando con se stesso, dandosi il vanto di tutto. Chiaramente non restava nessuno spazio per Dio. Al centro di quella presunta preghiera c’è la sua persona, non Dio, mentre al centro della vera preghiera ci sta Dio.

Guardando all’altro personaggio, ci rendiamo conto che egli si trova fuori posto in quel luogo, e si sente pieno di vergogna, tanto è vero che non osa nemmeno alzare gli occhi verso l’alto, luogo della presenza di Dio, ma sta solo a mormorare una invocazione molto semplice: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Lui si presenta dinanzi a Dio con la piena consapevolezza della sua condizione, è un peccatore, non merita nulla; per questo si appella alla misericordia di Dio. Non ha niente di cui vantarsi o farsi bello davanti a Dio. Ha solo il disagio enorme di non essere quel tipo di uomo che può essere gradito a Dio, ma forse sente il richiamo di una vita diversa da quella che attualmente sta vivendo e lo fa stare male con se stesso. Gesù ci dice che quest’uomo uscì dal tempio giustificato. Dio lo giustifica, non perchè è indifferente di fronte alla sua vita disonesta e sbagliata, ma perché spinto dal fatto di sentirsi accolto da Dio, si metta in un cammino di giustizia e di onestà. Quindi giustificato per poter diventare giusto, per grazia di Dio.

Anche noi entriamo nel tempio per pregare. Ci rendiamo conto che entrambi questi personaggi coesistono dentro di noi, il fariseo e il pubblicano: ci stanno proprio tutti e due. Abbiamo da prendere qualcosa da ciascuno di essi per cercare di fare una buona sintesi. Dal fariseo vogliamo prendere la sua pietà, la sua onestà, la sua generosità verso i poveri, il suo alto senso della legalità, il suo amore ed il senso di responsabilità nei confronti della chiesa, come pure la sua fedeltà coniugale. Del fariseo vogliamo imitare il senso della sua miseria e della grandezza di Dio, e soprattutto il fatto che si affida totalmente a Dio. Egli sente che Dio è veramente vicino a quanti hanno il cuore spezzato. Inoltre ci viene ricordato che la prova del nove, la verifica assoluta della bontà della nostra preghiera è data dal come ci poniamo nei confronti degli altri, se pretendiamo di metterci al posto di Dio e li giudichiamo, o se ci sentiamo compagni di viaggio e ci sosteniamo a vicenda.
Giuseppe Licciardi (Padre Pino)

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