(Anno C) IV Domenica di Quaresima

«QUAND’ERA ANCORA LONTANO, SUO PADRE LO VIDE»
(Gs 5,9-12; Sal 33; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32)

La premessa della parabola ci consente di situarla in una precisa cornice che ne rimarca ancora di più il significato e ci permette di contestualizzarla. L’occasione che offre a Gesù lo spunto per inventare questa parabola, senza dubbio la più conosciuta e raccontata del Vangelo, è data dal fatto che «si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori, per ascoltarlo». Questo fatto, volutamente marcato da Luca nell’altro gruppo di persone che accorrono verso Gesù provoca un’ evidente reazione di rifiuto e di intolleranza. Per gli scribi ed i farisei, infatti, essi sono, per definizione, persone lontane da Dio e senza speranza di salvezza, e quindi da scartare e da tenere decisamente lontano, non come fa Gesù che invece li accoglie e, in maniera provocatoria, mangia addirittura con loro, ritenendosi amico e familiare. Gli scribi e i farisei si sentono così convinti delle loro ragioni che non esitano a manifestarle apertamente ed esprimono il loro forte disappunto nei confronti di Gesù. Da qui nasce la parabola, che è diretta proprio a loro.

Fin dall’inizio Gesù ci presenta i protagonisti del racconto: un padre e i suoi due figli. Non ci dobbiamo meravigliare se la parabola è tutta al maschile, perché il genere parabolico è solo un modo di raccontare per esprimere una situazione di carattere universale. Del resto tutti noi sappiamo che tra questi “figli prodighi” di cui ci parla il Vangelo, c’è certamente Maria di Magdala, una peccatrice, anch’essa tra quelli che amano ascoltare il Maestro che parla al loro cuore. Anche se il racconto può dare l’impressione che al centro c’è la figura del figlio più giovane, tanto è vero che nei secoli questa parabola è stata conosciuta come “la parabola del figlio prodigo”, il vero protagonista è invece il Padre, l’unico che mantiene integra e coerente la sua identità, che è quella di essere Padre. Ai nostri giorni si preferisce più giustamente parlare della “parabola del Padre misericordioso”. I figli invece sono quelli che hanno profondo bisogno di riscoprire la loro identità e di comprenderla e viverla in maniera nuova ed autentica. Entrambi, infatti, chi per un verso chi per un altro, si pongono in maniera alienante e distorta nei confronti del Padre, tant’è vero che uno sente il bisogno di allontanarsi il più possibile da casa e tagliare del tutto i rapporti con il padre, mentre l’altro, pur rimanendo in casa vicino al Padre, vive in atteggiamento servile, di formale obbedienza, ma non è in intimità col Padre.

Possiamo ora entrare nel vivo del racconto che comincia a narrarci del figlio più giovane, che si pone in atteggiamento di piena contestazione nei confronti del padre, perché l’ambiente familiare gli sta stretto. Egli ha i suoi progetti, le sue aspirazioni e sembra che il padre sia di ostacolo alla piena espressione della sua persona. Il suo atteggiamento è quello di chi sente di avere tutti i diritti dalla sua parte e che tutto gli è dovuto. Cosa inaudita, soprattutto a quei tempi, chiede con arroganza di avere “la parte di eredità che gli spetta”. Di solito l’eredità si riceve dopo che il padre muore. Quindi il giovane ragiona come se per lui il padre fosse già morto. Ma ancora più curioso è il fatto che il Padre non lo contesta, non gli si oppone, anzi gli consegna quello che gli è stato chiesto, quasi a riconoscere il diritto di quel figlio. Sappiamo come prosegue la parabola. Ubriacato dalla sfrenata sete di libertà, il giovane si getta a capofitto nella vita, cercando di prendere da essa tutto quello che può, gli sembra esaltante e lo fa sentire vivo ed euforico. I soldi gli fanno pensare che si può permettere tutto: banchetti, amici, divertimenti, sballo, donne, vino e ogni sorta di emozione che la bella vita sembra potergli offrire. La conclusione della sua storia è invece amara e deludente. Abbandonato dagli amici, senza più un soldo, si deve adattare alle più umilianti situazioni per sopravvivere, accettando persino di andare a pascolare i porci, animali tabù e immondi per gli ebrei, e persino desiderare di saziarsi di quello che essi mangiano.

Solo ora che è costretto dal bisogno e sprofondato nella miseria più abietta affiora il ricordo del padre e della casa paterna, e di come nella sua casa anche i servi venivano trattati con rispetto e umanità, tanto da fargli sentire desiderabile la loro condizione in paragone alla sua. Così matura nel suo animo l’idea di tornare dal Padre. Non è certo un esempio di pentimento e di sincera conversione, ma di semplice calcolo interessato. Al centro c’è ancora e sempre il suo io, il suo personale vantaggio. Ma nel profondo della sua coscienza, anche se ancora non se ne rende conto, comincia a prendere forma la figura del padre. Ancora è solo uno che può risolvere i suoi problemi, non di più. Così si deve preparare un discorsetto da fare al padre, per farsi accettare almeno come un servo, perché sa di avere perso ogni diritto. Prepara le parole da dire, perché non sono familiari al suo cuore. Ma intanto si alza da quella situazione e si muove nella direzione che lo porta verso il padre.

E qui avviene qualcosa di sconvolgente: il padre lo vede da lontano e gli corre incontro. Sembra che dal momento che il figlio lo ha abbandonato non ha smesso di pensare a lui e di aspettare il suo ritorno, non vedendo l’ora di riabbracciarlo, di baciarlo, senza rinfacciargli nulla, senza coprirlo di rimproveri, ma addirittura facendolo lavare ben pulito, dandogli i vestiti più belli e persino l’anello, che lo fa riconoscere come figlio. Il figlio indegno viene rivestito di dignità dall’amore misericordioso del padre, che ha continuato ad amarlo e a ritenerlo figlio, come ora sta dimostrando con il suo atteggiamento.
Ma c’è ancora un’altra persona che sembra sia stata dimenticata: il figlio maggiore, quello che era rimasto a casa con il padre. Arriva dalla campagna, dal compimento del suo dovere e sente suoni e trova aria di festa, senza che lui ne sappia nulla. Si informa dai servi, e la notizia che apprende, invece di farlo gioire, lo colma di indignazione e di risentimento, sia nei confronti del padre come pure del fratello, che ormai per lui non esisteva più. Lo aveva cancellatao, come del resto aveva fatto l’altro fratello. Questo è forse l’aspetto che ancora occorre scoprire nella parabola. Il Padre non può essere felice, fino a quando i figli si ignorano l’uno con l’altro. Il dialogo del padre con il figlio maggiore che si allontana, e ancora una volta è il padre a doverlo raggiungere, è di una profondità ed acutezza impressionante. Il figlio parla del fratello come di “quello”, mentre il padre insiste dicendo “tuo fratello”, e invitando il figlio a considerare il grande evento che si era compiuto: suo fratello che era morto era tornato in vita, e colui che era perduto era stato ritrovato!

L’esigenza della fraternità da vivere nei confronti gli uni degli altri rimane il desiderio più urgente del padre e nello stesso tempo l’esigenza imprescindibile per i figli. Se i figli non si riconoscono e si accettano gli uni con gli altri, viene messa in discussione anche la paternità del padre. Non si può essere figli, se non si impara ad essere fratelli. Non possiamo chiamare Dio come nostro Padre se non impariamo a considerare e ad amare l’altro come fratello. Questo è l’insegnamento fondamentale del vangelo di Gesù, che lo chiama anche il suo comandamento, di amarci gli uni gli altri. Come giustamente sottolinea Giovanni: non ha senso ed è un vero e proprio inganno pensare di amare Dio, senza cominciare prima ad amare il fratello.
Padre Pino (Giuseppe Licciardi)

LASCIA UN COMMENTO

Per Favore scrivi il tuo commento
Per favore inserisci il tuo nome