A tutti coloro che soffrono

21 aprile 2012. Sto andando in sala operatoria. Ma non è la mia, quella dove lavoro tutti i giorni. Sono disteso in una barella e spogliato dei miei vestiti. Solo un camice di carta mi copre.  Mia moglie mi accompagna lungo il corridoio ed avrebbe voglia di piangere, ma si trattiene per non farmi scoraggiare. Io sembro sereno e ammicco alle facce sorridenti  che mi salutano e mi fanno gli auguri lungo il breve percorso. Poi la porta dell’ascensore si apre e mia moglie mi dà un bacio con gli occhi pieni di lacrime.
Sono nella sala operatoria di Villa Torri a Bologna e l’aspetto è ordinario, confusionario come le sale operatorie della mia città. Il personale è impegnato nel lavoro di routine, non sanno che sono un collega, o forse sì, ma non ha alcuna importanza. L’anestesista che avevo visto il giorno prima si avvicina e mi incannula una vena e inizia una infusione di medicinale. Mi stordirà senz’altro e infatti non avverto che mi viene incannulata un’altra vena con un ago più grosso e vengo spostato sul lettino operatorio e spogliato completamente…

Era il 30 marzo, di venerdì, quando mi trovavo disteso su di un altro letto. Stavolta a Palermo, nella Neuroradiologia del Civico. Immobile, sentivo il lettino che scivolava dentro il tunnel della Risonanza Magnetica. Un tunnel come una bara, ma illuminata da luci giallognole e il rimbombo assordante che mi martellava le orecchie tappate dalla cera. Un lunghissimo interminabile esame che doveva scansire e ispezionare il mio corpo dalla testa fino all’ultima vertebra sacrale. Dopo mesi di incertezze per quella gamba sinistra sempre più addormentata, ed esami inutili e dolorosi, finalmente  la dottoressa Basso della Neurologia aveva capito che il problema andava cercato tra capo e colonna vertebrale. Non sapeva cosa cercare, o forse lo sapeva ma evitava di sbilanciarsi. La solita, giusta prudenza prima di sentenziare una diagnosi pesante. Ora il responso era vicino, finalmente avrei saputo.
“Per l’esito dovrà tornare lunedì”, mi avevano detto. E invece quel pomeriggio la mia collega mi aveva chiamato: “Saverio, ti hanno cercato dalla Neuroradiologia. Puoi andare oggi pomeriggio stesso a ritirare l’esame di questa mattina. Non era un buon segno. Capisco queste cose. Qualcosa non era andata bene e non volevano lasciarmi all’oscuro fino a Lunedì.
Non dissi  nulla. Ma avevo già deciso che non sarei andato. Perché guastarmi il sabato e la domenica con una brutta notizia? E poi quella domenica era il 1 aprile, il compleanno di mia moglie.
Il 2 aprile, lunedì, andai a ritirare il referto. Ero solo. Presi la busta e mi allontanai.  L’aprii per strada e senza apparente emozione lessi il referto:  “Esame condotto i maniera basale con … bla bla bla… presenza tra t8 e t10 di neoformazione intracanalare extramidollare che comprime il midollo spinale per i 4/5… verosimile neurinoma o …”
I due “oma” puzzavano maledettamente di tumore. Ma non sapevo di che genere. Continuai impassibile a camminare verso il reparto con mille pensieri che mi frullavano nella testa:  forse ero giunto alla fine della mia vita, pensavo. Ero inspiegabilmente tranquillo. Passando incontrai la cappella dell’ospedale e vi entrai. In questo casi Dio torna molto utile e confortante. Ma io già lo avevo scelto come Signore della mia vita.
interno chiesaNon c’era nessuno. Mi inginocchiai e chiesi  nella preghiera non la guarigione o qualche sorta di miracolo a cui non credevo e di cui comunque non mi ritenevo degno e poi non vedevo perché io avrei dovuto avere un qualche privilegio mentre migliaia di persone soffrono e muoiono per malattie. Anche bambini innocenti a cui Dio per ragioni misteriose non dà ascolto. Chiesi di darmi la forza di vivere bene qualsiasi cosa mi sarebbe successa.
Uscendo incontrai il mio amico Giuseppe. Vide la mia faccia e intuì che qualcosa non andava. L’amico ti sa leggere nel cuore senza bisogno di parole. Insieme andammo a cercare la dottoressa della Radiologia che aveva letto la Risonanza per chiederle chiarimenti. Quando mi vide mi fece accomodare subito tralasciando quello che stava facendo. Altro brutto segno. Con aria dolce mi confortò sulla possibile natura di quell’estraneo dentro il mio midollo spinale. Dovrebbe trattarsi di un tumore, verosimilmente di natura benigna. Certo il posto era delicato e l’intervento non facile. Mi suggerì un paio di Ospedali al Nord dove sarei potuto andare e la promessa che avrebbe chiesto informazioni in merito.
Uscendo, Giuseppe era più costernato di me perché a volte, quando si vuol bene a qualcuno si soffre di più per i suoi mali che per quelli personali. Insieme andammo dalla dottoressa Basso, colei che aveva intuito, e che non fu per questo tanto sorpresa dall’esito. Qualunque cosa fosse, quella cosa andava tolta da lì perché rischiava di compromettere la deambulazione e condannarmi ad una sedia a rotelle. Mi scusino coloro che sono costretti a viverci sopra, si può se è indispensabile, ma vivere su di una sedia compromette comunque molta autonomia e trasforma la vita di una persona. Una specie di condanna ad un ergastolo di immobilità che nel mio caso avrebbe compromesso anche la mia parte mascolina.
La dottoressa mi guardava in viso e cercava di tranquillizzarmi. Io mi sentivo sereno ma lei sosteneva che ero in uno stato ansioso e preoccupato. Il neurologo era lei, io che potevo dire? Mi consigliò di non fare alcun viaggio della speranza e di affidarmi alla “nostra” Neurochirurgia.
“Per la colonna vertebrale sono affidabili, ma l’intervento lo deve fare il dottor….”
Mi ci portò subito, al piano di sopra. Vide il collega e gli sottopose il problema dandogli il CD dell’esame. Professionalissmo, questi inserì il CD nel PC vide l’esame e sentenziò: “Ma questo signore cammina ancora?”
Io gli stavo dietro, in divisa e camice di lavoro. “Ehm dottore, quel signore sono io” gli dissi.
“Ah. È lei? Benissimo. Pensavo fosse un suo parente.  Questa operazione è la gioia dei neurochirurghi, perché la massa si trova al di qua del midollo e dunque… bla, bla, bla”. Oggi è lunedì, domenica è Pasqua e immagino che… martedì si faccia vedere e organizziamo il ricovero…”
Non avevo alcuna intenzione di andare lì, né martedì dopo Pasqua né mai. E non ci andai.
Parlando con i colleghi in reparto, ciascuno suggerì il proprio consiglio e fra tutti uscì che un ingegnere dei defibrillatori aveva un cognato neurochirurgo che aveva lavorato a Milano e che in quei giorni era in città per le feste pasquali. Un giro di telefonate e venerdì santo il neurochirurgo fu in reparto e tutto concordato: giorno 20 aprile dovevo essere a Bologna per essere ricoverato e il giorno dopo operato.

operazione… Prima di perdere coscienza recitavo a memoria il salmo del Buon Pastore: “Pur se andassi per valle oscura non avrei a temere alcun male perché sempre mi sei vicino…” Poi il buio totale. Dopo un tempo per me brevissimo, ma erano passate più di cinque ore, il dottore uscì dalla sala operatoria e parlò a mia moglie della difficoltà dell’intervento e la preparò al peggio: “Non sappiamo se potrà camminare! Adesso andrà in Terapia Intensiva.”
Ma ero vivo e questo era tutto per lei. Aveva trascorso tutto il tempo a pregare e passeggiare confortata dalle compagne di degenza, le altre mogli che accompagnavano i mariti. Avrebbe trascorso la notte dietro la porta a vetri del reparto intensivo e solo per un attimo avere il permesso di entrare e guardarmi dormire.

In terapia Intensiva, vivevo come sospeso tra la veglia e il sogno. Vedevo avvicinarsi le persone ma non ne distinguevo il volto. Angeli del soccorso senza volto. Erano gli infermieri che vegliavano sulla mia vita e la sostenevano con i farmaci.
“Muovi le gambe, Saverio! Le puoi muovere? Mi senti?” Qualcuno mi stimolava. Doveva essere il Neurochirurgo o l’anestesista, o entrambi. Io ascoltavo quelle voci che mi sembravano provenire da lontanissimo e cercavo di obbedire. Con fatica, ma con facilità mossi le gambe e poi ripresi il sonno.
“Le muove, le muove!” Esultò il medico entrando nella stanza dove mia moglie attendeva irrequieta. Era già una piccola vittoria. Già, perché la difficoltà dell’intervento non rassicurava su possibili ricadute.
Cinque notti trascorse in ospedale mi trasformarono da persona normale a malato. Il viso pallido e segnato dal dolore, il corpo deformato, i movimenti lenti e impacciati.
disabileFeci il viaggio di ritorno a Palermo condotto su una sedia a rotelle. Ho visto il mondo da quella posizione e non mi è piaciuto affatto. Non erano le ovvie difficoltà a turbarmi quanto il modo commiserevole in cui mi sentivo guardato dalla gente.
A  Palermo mi aspettavano due dei miei figli e non volevo farmi vedere sulla sedia, ma non è stato possibile. Appena li vidi, mi sentii montare le lacrime, ma non volevo che vedessero piangere il loro papà e mi sono trattenuto.
Poi è cominciata la convalescenza: è andato tutto male, la ferita si è infettata  e ricucita più volte mentre mi imbottivano di antibiotici e cortisoni che deformavano il mio aspetto sempre più. Ho temuto più volte di morire, quando stavo male, ma non volevo che i miei si preoccupassero e soffrivo in silenzio e in perfetta solitudine.
Tutta la presunta forza d’animo si perdeva  nell’incertezza di una salute che stentava a tornare e nella consapevolezza che nessuno riusciva ad aiutarmi. Dovevo fare da solo, anche decidere se continuare o sospendere le terapie. Decisi di sospenderle perché avevo la sensazione che non mi giovassero, anzi peggiorassero la situazione. Pensavo che  avrei preferito soffrire nella solitudine e invece mi faceva piacere ricevere amici e familiari e conoscenti e rimanevo deluso dall’assenza di coloro che mi aspettavo dovessero starmi vicino in quei momenti difficili. Mi è rimasto vicino chi mi amava e questo mi basta. Come cambiano le cose davanti alla realtà.
Poi, quando pensavo che le cose precipitassero e sarei dovuto tornare a Bologna per essere rioperato, ecco che qualcosa è cambiato, il mio corpo ha reagito, la ferita si è chiusa e lentamente è guarita mentre le forze mi tornavano.
Era giugno inoltrato quando ho potuto togliere le garze e ricominciare a vivere. A metà luglio completavo la mia convalescenza al mare in Calabria, insieme alle persone che mi erano state sempre vicine.
Adesso mi è rimasta una profonda cicatrice al centro della schiena e la consapevolezza della fragilità della condizione umana insieme ad una profonda solidarietà per tutte quelle persone che soffrono, moralmente al momento della diagnosi talvolta terrificante,  fisicamente per lesofferenza angherie che la malattia ti costringe a subire, spiritualmente perché non ti riesci a capacitare dell’immenso silenzio di Dio che guarda e rimane apparentemente impassibile nel suo mistero.

Dedicato a tutti coloro che soffrono.
Saverio Schirò

 

 

 

1 COMMENTO

  1. Caro Saverio ,non conoscevo la tua storia. Avevo solo intuito – dal tuo aspetto – che eri stato male ma non potevo mai intuire di quale male soffrivi. Dal finale sembra che le cose vadano bene. Mi ha colpito particolarmente il tuo pensiero su Dio e sulla sua volontà, anche perchè è il mio pensiero. “Mi inginocchiai e chiesi nella preghiera non la guarigione o qualche sorta di miracolo a cui non credevo e di cui comunque non mi ritenevo degno e poi non vedevo perché io avrei dovuto avere un qualche privilegio mentre migliaia di persone soffrono e muoiono per malattie. Anche bambini innocenti a cui Dio per ragioni misteriose non dà ascolto”. Anch’io, quando a volte si prega (soprattutto la Madonna) per la nostra salute o per preservare da ogni male i nostri cari mi chiedo: ma per quale motivo la Madonna o Dio dovrebbero accontentare gli uni e gli altri, mentre milioni di bambini muoiono di fame o migliaia di altri vengono seviziati o abusati?

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