Elisabetta, donna fedele nell’attesa

Viveva ad Ain Karim, un paesino distante circa sei Kilometri da Gerusalemme. Il suo nome era Elisabetta (nome che significa “Il Signore ha giurato”, oppure “Dio è perfezione”), ed era una discendente di Aronne, appartenente alla classe sacerdotale. Il suo sposo era un sacerdote del Tempio di Gerusalemme, e si chiamava Zaccaria (“Javéh si è ricordato”) della classe sacerdotale di Abia. La distanza relativamente breve, consentiva a Zaccaria di andare e venire dal Tempio, quando era il suo turno di offrire il sacrificio o di servire all’altare. Di essi ci viene detto che “ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”. Questa nota è molto significativa e rappresenta uno dei più grandi elogi che la Scrittura fa di questa coppia, quasi ad alleviare la dolorosa annotazione che l’accompagna. Infatti “Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni”, situazione che per un ebreo era un disonore, perché una donna sterile era considerata come misteriosamente punita da Dio. Elisabetta quindi portava nel suo cuore questa profonda sofferenza, anche se, per la sua grande fede, aveva imparato a convivere con essa, e non aveva mai cessato di sperare contro ogni speranza.

            Appartenendo alla classe sacerdotale, Elisabetta aveva una certa dimestichezza con le Scritture e le erano ben familiari i grandiosi esempi che venivano narrati di altre donne che come lei avevano subito la vergogna della sterilità, ma che avevano pure conosciuto la fedeltà di Dio. Così si sentiva vicina a Sara, moglie di Abramo, che aveva dovuto attendere oltre ogni umana logica di natura il dono del figlio Isacco; a Rebecca, che aveva dovuto aspettare molto tempo prima di aveva i suoi figli; a Rachele, le cui lacrime per la sua sterilità le avevano ottenuto in premio il figlio Giuseppe, uomo prediletto da Dio. E sentiva vicina la moglie di Manoach, una donna sterile, di cui stranamente viene taciuto il nome, e che divenne madre di Sansone. E le era molto cara Anna, umiliata dalla sua rivale Peninna per la sua sterilità, ma alla quale Dio concesse Samuele,  che diventò grande agli occhi di Dio e del suo popolo. La compagnia spirituale di queste donne attutiva il dolore del suo cuore ferito e le consentiva di alimentare la brace ardente della speranza, che illuminava il cammino oscuro ma tenace della sua forte fede.

            Era il turno di servizio al Tempio per il suo sposo, e in quei giorni Elisabetta era solita rimanere a casa, vegliando nella preghiera e nel compimento dei suoi doveri familiari in attesa del suo ritorno. Rimase quindi meravigliata quel pomeriggio, quando se lo vide comparire a casa sconvolto, ma nello stesso tempo assai eccitato, che gesticolava senza poter articolare una parola. Dopo alcuni tentativi di farsi capire con i gesti, che Elisabetta sembrava intuire, alla fine Zaccaria prese una tavoletta e cominciò a scrivere e narrare il prodigioso evento che gli era accaduto mentre stava facendo nel Tempio l’offerta mattutina dell’incenso e l’incontro sconvolgente con Gabriele, l’angelo del Signore. A mano a mano che Zaccaria descriveva la sua formidabile esperienza, una  gioia incontenibile cresceva nel cuore di Elisabetta, che non poteva trattenere le sue lacrime per la grande emozione: Dio, -che Egli sia benedetto nei secoli!- aveva ascoltato la sua ininterrotta e fiduciosa preghiera. Alla sterile, ormai avanti negli anni, veniva fatto il dono di un figlio, e Dio stesso gli aveva già dato il nome, Giovanni, perché egli era veramente “dono di Javèh”. Elisabetta lodava Dio e diceva: “il Signore si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini“.

            Così Elisabetta concepì e decise di starsene a casa a godersi tutta quella gioia che danzava nel suo cuore, ma anche per meditare e ringraziare Dio per il suo agire misterioso. In più, a motivo della sua mutezza, anche Zaccaria se ne stava a casa, per avere occasione di fare crescere, nel silenzio impostogli, la sua fede, che si era indebolita. Quel fecondo ritiro venne interrotto al sesto mese, quando Elisabetta si vede comparire come un raggio di sole la sua giovanissima parente, Maria di Nazareth, che, in seguito all’annuncio dell’Angelo,  si era messa in cammino per la regione montuosa per venire a visitare la cugina, di cui le era stata rivelata la prodigiosa maternità. All’udire la voce di Maria, Elisabetta sente il bambino danzare di gioia nel suo seno e lei stessa è inondata dalla potenza dello Spirito Santo che la fa esclamare: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!”, e prima fra tutte le creature proclama la maternità divina di Maria, riconoscendola quale”madre del mio Signore” ed esaltando la sua umile e profonda fede: “E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Ormai Elisabetta si sente libera di dare a tutti testimonianza delle grandi cose che il Signore aveva compiuto in lei.

            Per i vicini di casa e per tutta la parentela è un continuo via vai, perché tutti vogliono vederla e congratularsi con lei per la misericordia che Dio le aveva manifestato. Quando si compirono i giorni del parto, diede alla luce un figlio. Come vuole la legge, otto giorni dopo il parto vennero al Tempio per circoncidere il bambino ed imporgli il nome.  Per i parenti era normale che si chiamasse con il nome del padre, Zaccaria, ma Elisabetta, con fermezza ed autorità intervenne: “No, si chiamerà Giovanni“. A questo punto si rivolgono con cenni al padre, il quale chiese una tavoletta e scrisse senza esitazione: “Giovanni è il suo nome“. Non aveva finito di scrivere il nome quando la sua lingua si sciolse e cominciò a benedire a gran voce Dio, annunziando il destino del figlio, come profeta dell’Altissimo. Per tutta la regione si diffuse subito la grande notizia, che per parecchio tempo diventò l’argomento del giorno. Tutti non facevano che dirsi a vicenda: “che sarà mai di questo bambino?”.  Zaccaria riprese il suo servizio. Elisabetta era tutta dedita al bambino che cresceva sano e si sviluppava. “E davvero la mano del Signore era con lui“.

Giuseppe Licciardi (Padre Pino)

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