(Anno C) XXVI domenica del tempo ordinario

«HANNO MOSÉ E I PROFETI, ASCOLTINO LORO»
(Am 6,1.4-7; Sal 145; 1Tm 6,11-16; Lc 16,19-31)

Ancora una volta la voce del profeta Amos si fa sentire con straordinaria durezza ed intransigenza contro i ricchi di Samaria, che egli qualifica come “spensierati”. Agli occhi del profeta, contadino-pastore, abituato ad uno stile di vita molto sobrio, in cui le relazioni di solidarietà fanno parte del tessuto della vita quotidiana, quelle sono persone che non si preoccupano di altro che di se stessi, delle loro ricchezze, dei loro piaceri. Esse non sono in grado di volgere gli occhi attorno per vedere la situazione di miseria in sono ridotti i figli di Giuseppe, cioè gli israeliti. Il profeta ce li descrive mentre conducono una vita dedita ai bagordi, al lusso sfrenato, allo spreco, mentre il popolo dei miseri e dei poveri va in rovina. La rovina che sta per abbattersi sugli israeliti loro non sono in grado di prevederla, perché i loro occhi sono offuscati e appesantiti dall’ubriachezza, che li rende ottusi ed insensibili. Eppure proprio loro saranno le prime vittime di questa catastrofe che piomberà loro addosso, e le loro ricchezze non riusciranno ad evitarla.

Questa cecità, questa incapacità di vedere chi ci sta vicino, è la caratteristica di quell’uomo ricco, di cui ci parla Gesù nella parabola del Vangelo di oggi, che continua il discorso dell’uso della ricchezza, vista come fine a se stessa o solo in maniera egoistica, e che non diventa una ricchezza condivisa, che riesce a costruire rapporti di amicizia, capaci si salvare la persona. Quest’uomo ricco, “spensierato” secondo il linguaggio di Amos, viene denominato dalla tradizione “epulone”, definito dal suo modo di vivere la vita tra lusso e banchetti. Ma dinanzi a Dio non ha un nome, è solamente un ricco, uno quindi che non conta agli occhi di Dio. Lui sta in casa, a mangiare e bene, ed è strano che non ci viene detto nulla della compagnia che lo circonda, forse gente del suo stesso stampo. Ma questo fatto è sufficiente, per dirci che la ricchezza non è capace di creare rapporti di amicizia, e la persona ricca si ritrova alla fine solo con la sua ricchezza, alla quale si è dedicato e della quale è diventato schiavo. Ecco: essa è la sua divinità che non è riuscita a porre in salvo la sua vita. Nella seconda parte della parabola il ricco viene presentato in una situazione di assoluta disperazione, da cui niente e nessuno più riesce a salvarlo.

Fuori della porta della sua casa, ma, davanti ai suoi occhi, ci sta un uomo povero e solo, che sta ad aspettare le briciole che cadono dalla sua mensa, ma resta solo a desiderare ed a bramare invano. Solo i cani gli sono solidali, si avvicinano a lui e leccano le sue ferite, mostrando di accorgersi di lui e di considerarlo, mentre il ricco non si accorge nemmeno che lui esiste e che la sua fame grida in maniera assordante verso di lui. Ma Dio vede quel povero, lo conosce per nome, e si chiama Lazzaro, quell’uomo povero, coperto di piaghe, emarginato dalla cecità degli altri, è uno che conta agli occhi di Dio. Quest’uomo ci è presentato come una persona affamata, bramosa di poter ricevere qualcosa da mettere sotto i denti, ma il nome ci aiuta ad andare oltre e quindi a farcelo vedere come quell’uomo povero, affamato e pieno di piaghe, quindi carico di sofferenza, ma che pone la sua fiducia in Dio, l’unico che lo può ascoltare. Di fronte all’insensibilità dell’uomo ricco, che continua a mantenere Lazzaro nella sua miseria e sofferenza, la risposta di Dio giunge alla fine, dura ed inesorabile, ponendo Lazzaro nella compagnia gioiosa di Abramo, ed il ricco, al contrario, irrevocabilmente escluso da questa sorte felice ed immerso nella sofferenza più atroce. Per lui non c’è speranza, perché con la sua vita ha scavato un abisso, che solo lui avrebbe potuto colmare, solo che si fosse affacciato davanti alla porta di casa ed avesse usato compassione verso Lazzaro.

Ancora una volta, non possiamo semplificare il discorso riducendolo ad un racconto esemplare, e nemmemo possiamo vederci in abbozzo un trattato sull’aldilà. Quel che ci viene presentato serve per dirci dov’è e di che genere è la vera ricchezza e la piena realizzazione della persona. Ancora una volta siamo rimandati qui, su questa terra, dove viviamo e ci scontriamo con gli altri uomini, con i quali siamo chiamati a costruire una società non basata sul potere, sull’interesse personale ed egoistico, sulla ricchezza, realtà tutte che finiscono col pervertire il cuore dell’uomo, facendogli dimenticare chi vive accanto a lui. Il tipo di società che il Signore desidera vedere realizzata dagli uomini suoi figli, è una società dove si impara ad accogliersi, a condividere i beni che il Signore ha dato perchè tutti ne possano godere, dove nessuno può ripetere la cinica espressione di Caino, che non sa dov’è suo fratello, perchè lo ha ucciso. Il discorso che Abramo fa all’uomo ricco, che vorrebbe mandare un messaggio ai suoi fratelli, perchè non vadano a fine come lui, è molto semplice: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. Dio ha messo tutti gli uomini nella condizione di intuire, e tanti di loro, che hanno ricevuto il dono della parola rivelata, di sapere come devono comportarsi su questa terra e quali sono i criteri per poter discernere il bene dal male.

Quest’uomo ricco, non finisce la sua vita nei tormenti perchè è ricco, ma perchè ha ignorato il grido di dolore del fratello e non ha fatto niente per venirgli incontro. Se noi siamo figli di Dio, il modo migliore per dimostrarlo è quello di cercare di somigliare a Lui, di seguire i suoi criteri ed i suoi esempi. Il Salmo responsoriale sembra una litania, che delinea i tratti del volto di Dio, in modo che anche noi ci possiamo confrontare con Lui: « Il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati. Il Signore libera i prigionieri. Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, sostiene l’orfano e la vedova…». Sono indicate delle azioni concrete che ciascuno di noi è provocato a compiere dalla stessa vita quotidiana, vissuta a contatto con gli altri, i fratelli, appunto. Al suo amico e collaboratore Timoteo Paolo rivolge una calda esortazione, di conservare integro il comandamento fino al giorno del Signore.

Anche a noi viene suggerito di conservare viva ed integra la parola di Dio in un cuore puro e volenteroso per poterla mettere in pratica, e così guadagnare quella ricchezza che rimane, e che ci impedisce di scavare un abisso tra noi e gli altri, e quindi tra noi e Dio.

Giuseppe Licciardi (P. Pino)

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