(Anno C) Solennità di Cristo Re

«COSTUI E’ IL RE DEI GIUDEI»
(2Sam 5,1-3; Sal 121; Col 1,12-20; Lc 23,35-43)

 

            Ai capi del sinedrio e ai Sommi sacerdoti non andava giù quella scritta posta in cima alla croce di Gesù, perché, stranamente, ne percepivano tutta l’immensa serietà e gravità: “Costui è il Re dei Giudei”. Per essi non era una frase di scherno, come lo era stata per i soldati che si prendevano gioco di Gesù durante quell’infame e incredibile processo che si era appena concluso al pretorio di Pilato. Per essi quella scritta suonava come la più alta e ufficiale dichiarazione sulla persona di Gesù, che loro avevano da sempre rifiutato e che continuano con rabbiosa tenacia a rifiutare. Ma per tutti gli spettatori della tragica scena quella scritta è motivo di scherno e di beffardi insulti, tanto paradossale essa appare, per il semplice fatto che Colui che viene proclamato come Re è uno condannato a morte come un malfattore, si trova in una condizione di assoluta debolezza ed impotenza. Se il titolo evoca immagini di gloria, ricchezza, potenza,  tutte queste immagini si dissolvono e si deformano impietosamente, nel momento in cui fissiamo lo sguardo su Colui che è stato crocifisso in mezzo a due briganti ed assassini. La pagina del Vangelo di Luca che stiamo leggendo si sofferma lentamente su alcune scene che ci invita ad osservare.

            La prima immagine mette a fuoco il popolo, di cui ci viene detto che “stava a vedere”, forse per delusione, forse per paura, forse perché non riusciva a raccapezzarsi di quello che era avvenuto e che sembrava ad essi impossibile. O forse anche per la vergogna di non aver saputo spendere una parola a favore di quell’uomo, che fino a un paio di giorni prima era diventato il loro eroe. Se andiamo indietro nelle pagine del vangelo non facciamo fatica a trovare questo popolo anonimo, ma certamente numeroso, che stava sempre attorno a Gesù. Da quando aveva iniziato l’annuncio del Regno di Dio nella regione di Galilea, la presenza di molta folla che lo seguiva per ascoltare la sua parola, sia quando predicava sulle spiagge del lago di Galilea, o nelle case, o nella campagna o lungo la strada che lo conduceva a Gerusalemme, è costantemente segnalata pagina dopo pagina. Ed anche lì, persino vicino al tempio, la folla gioisce nell’ascoltare Gesù. Con quanto entusiasmo lo aveva acclamato gridando “Benedetto Colui che viene, il re, nel nome del Signore!”, appena pochi giorni prima, per poi cambiare di umore e chiedere urlando verso Pilato”Crocifiggilo, crocifiggilo!”. Ora sta semplicemente a vedere, muta, non si pronuncia!

            L’altra inquadratura punta sui capi del popolo, che finalmente si sentono sollevati, anzi si possono permettere di sbeffeggiare Gesù, ora che non può fare più nulla, inchiodato com’è alla croce. Sulle loro labbra ritorna il richiamo subdolo della tentazione: “Se è Lui il Cristo di Dio, salvi se stesso!”. Ma Gesù aveva tantissime volte dimostrato di essere il Cristo di Dio non servendo i suoi interessi, ma servendo i poveri, gli ultimi, i lebbrosi, i malati, gli stranieri, e mescolandosi con essi. Gesù tace, e non reagisce a queste provocazioni, perché intuisce bene da dove provengono. Ai capi del popolo fanno eco i soldati, gente rude e violenta, che già avevano cominciato al pretorio di Pilato a prendersi gioco di lui. Facendo riferimento alla scritta sopra il suo capo, gli dicono: “Se sei il re dei Giudei, scendi dalla croce!”, e qui aggiungono alle parole il gesto di volerlo dissetare con aceto. Loro sono sensibili di fronte al potere ed all’autorità, ma di fronte a questo cosiddetto re, incapace di reagire neanche con le parole, si possono permettere di deriderlo impunemente. Egli non reagisce. Ha predicato il perdono delle offese, di porgere l’altra guancia a chi ti percuote, di non opporre violenza alla violenza. Ed ora è muto davanti a loro. E tace.

            Ed infine l’obiettivo si sposta un po’ più in alto, all’altezza delle croci. Anche da lì, da quel luogo di supplizio c’è chi si permette di deridere Gesù, facendo eco a quello che sente attorno a lui. É uno dei due malfattori, che incurante della sua situazione, non ci pensa due volte a irridere Gesù. Egli è troppo abituato alla cattiveria e quasi non ne può fare a meno, neanche mentre subisce la sua condanna. Anch’egli invita Gesù a dar prova dei suoi poteri, e liberare se stesso, e possibilmente anche loro. Per lui la salvezza corrisponde a essere liberato dalla condanna, dalla sofferenza, dalla minaccia della morte. Non c’è alcuna visione di una vita al di là della morte per quest’uomo, mentre Gesù aveva insegnato che il gesto più potente di amore è quello di dare la vita per i propri amici ad anche per i propri nemici, e che non importa se perdi la vita in questo mondo, se hai la speranza della vita eterna. Ma neanche a costui Gesù risponde, continuando con coerenza a seguire la sua scelta di stare in mezzo ai peccatori, ai condannati, ai malfattori, come uno di loro. E proprio da quel luogo di condanna ecco che si ode un’altra voce, quella dell’altro brigante, che interviene a favore di Gesù: “Noi meritiamo questa condanna, ma costui cosa ha fatto di male?”

            A difesa di Gesù si leva solo la voce di un condannato, di un malfattore, che sembra intuire la verità e le da ascolto. Sa di essere un brigante, un assassino e lo riconosce con umiltà. Egli osa sperare in un riscatto finale, oltre la condanna a morte che già grava su di lui. E per ottenere questo riscatto di cui si sente indegno, chiede a Gesù solo di ricordarsi di lui nel suo regno. Una invocazione di fede sincera e fatta a bassa voce, quasi timorosa, ma ci dice che quest’uomo crede nella regalità di Gesù e sente nel suo cuore che si tratta di una regalità spirituale, che può essere comunicata solo ai poveri in spirito. Una regalità che può essere accolta solo da chi accoglie Gesù nel suo cuore e aderisce a lui. Nella prima lettura, sono i capi delle tribù d’Israele che vengono da Davide per riconoscerlo come loro re. Non sono sottomessi con la forza, ma liberamente lo accettano e gli chiedono di regnare su di essi, perché, come si esprimono, “siamo tue ossa e tua carne”. Accettare la regalità di Gesù non è frutto di una conquista di forza, ma di un atto di amore. Come ha fatto il ladrone che lo ha riconosciuto suo re e signore. E a lui Gesù risponde senza esitare: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Oggi, perché qui e ora assaggiamo il Paradiso accettando Gesù.

Giuseppe Licciardi (Padre Pino)

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